E’ utile qualche precisazione riguardante l’assegnazione e la gestione dei fondi dell’8 per mille alla Chiesa cattolica, dopo la recente Deliberazione della Corte dei Conti. Pubblichiamo una nota delle Cei sul tema.
Considerati i contenuti della relazione della Corte di Conti e il rilievo mediatico della vicenda, sembra opportuno condividere alcune valutazioni, in parte già contenute nella memoria prodotta dalla Conferenza episcopale italiana alla Corte in vista della partecipazione all’adunanza del 1° ottobre u.s. sopra richiamata e rappresentate al Consiglio episcopale permanente del settembre – ottobre 2015 (o.d.g. n. 11).
Come è noto, nel sistema dei rapporti fra Stato e Chiesa vigente in Italia, fondato su precise garanzie di rango costituzionale e pattizio, l’utilizzazione delle somme dell’8 per mille attribuite in base alla libera determinazione dei cittadini è disciplinata in particolare dalla legge n. 222 del 1985. Questa legge di derivazione bilaterale prevede una triplice finalità: sostentamento del clero, interventi caritativi a favore della collettività nazionale e di paesi del terzo mondo, esigenze di culto.
La Chiesa italiana – sia a livello nazionale, sia a livello diocesano – ha utilizzato le somme destinate dai contribuenti in senso conforme alla previsione legale e ha predisposto adeguate forme di rendicontazione e di pubblicità.
L’impostazione adottata e la prassi seguita fino ad oggi non hanno suscitato critiche, salvo alcuni interventi isolati o comunque minoritari. Si può anzi rilevare un sostanziale e largo consenso, sia da parte delle istituzioni statali, sia da parte dell’opinione pubblica, che in larghissima maggioranza esercita a favore della Chiesa cattolica la libertà di scelta prevista dalla legge 222 cit.
L’evoluzione del sistema maturata nel corso degli anni ne ha confermato la solidità dell’impianto e l’attualità delle ragioni ispiratrici, fondate su valori di libera partecipazione democratica e di garanzia della libertà religiosa che hanno rappresentato e tuttora rappresentano un modello di riferimento anche per altri paesi europei.
Naturalmente ciò non esclude la possibilità e persino l’opportunità, da parte degli organi competenti e secondo le procedure specifiche che devono essere rispettate in questa materia, di attivare forme di verifica volte a individuare particolari aspetti che possano essere migliorati.
In questa prospettiva, i rilievi critici presenti nella Relazione in oggetto richiedono un’attenta e approfondita valutazione: alcuni segnalano criticità rispetto alle quali si avverte l’esigenza di un approfondimento; altri invece appaiono più problematici, fino a suscitare, in talune formulazioni, perplessità e riserve che può essere utile rappresentare.
Rientrano nella prima categoria anzitutto i rilievi relativi all’esigenza di un adeguato sistema di pubblicità (intesa come conoscibilità) e di trasparenza del sistema, nonché di contenimento delle spese di pubblicità sostenute con i fondi dell’8 per mille. Una specifica riflessione deve essere inoltre riservata al tema delle conseguenze derivanti dalla perdurante mancanza di una legge sulla libertà religiosa.
Fra i rilievi che suscitano invece fondate riserve si devono richiamare, in particolare, quelli che riguardano l’ammontare complessivo delle risorse attribuite dai cittadini a favore delle confessioni religiose, e soprattutto della Chiesa cattolica, e quelli relativi al meccanismo di riparto dei fondi derivanti dalle scelte non espresse.
Le affermazioni contenute nella Relazione circa l’entità del finanziamento – che non solo evocano l’attivazione da parte statale delle procedure di revisione del sistema ma si spingono fino a ritenere in parte venute meno le ragioni che giustificano tale sistema – presentano profili problematici e in talune formulazioni risultano esorbitanti.
Non si può ignorare infatti che con il nuovo sistema è stata attribuita ai cittadini la facoltà di decidere quale debba essere la destinazione di una quota del bilancio dello Stato misurata su una parte del gettito Irpef. Un caso di democrazia nell’indirizzo della spesa pubblica, nell’ambito di finalità predefinite, che coinvolge anche il cittadino non praticante o addirittura non credente, il quale apprezza l'opera della Chiesa in Italia e intende che la collettività nazionale la riconosca e la sostenga, assegnandole una quota, seppur modesta, del gettito fiscale.
In uno Stato democratico-sociale come il nostro, l’apporto alle confessioni religiose delle risorse pubbliche è fondato sull’apprezzamento della rilevanza sociale, culturale ed etica della presenza e dell'azione della Chiesa e sul compito, che la Costituzione italiana assegna alla Repubblica, di rimuovere gli ostacoli e di promuovere le condizioni per il pieno esercizio delle libertà fondamentali dei cittadini, tra le quali vi è indubbiamente la libertà religiosa (cf. artt. 3, 7, 8, 19, 20 Cost.).
Rispetto a tale impostazione, occorre evitare il rischio di una visione parziale, che non solo ignora o trascura i benefici per la collettività che derivano dall’impiego dell’8 per mille da parte delle confessioni religiose, ma finisce per mettere in discussione i capisaldi del sistema, prospettando opzioni di politica del diritto discutibili nel merito e comunque estranee al perimetro dell’indagine amministrativa contabile.
La disciplina bilaterale riserva a specifici organi e procedure – e in particolare alla Commissione paritetica istituita a norma dell’art. 49 della legge n. 222 del 1985 – il compito di procedere, con cadenza triennale, alla valutazione del gettito della quota dell’8 per mille Irpef, al fine di predisporre eventuali modifiche. Risulta significativo che fino ad oggi i lavori della Commissione si siano sempre conclusi, in sede di Relazione finale, con un giudizio di sostanziale condiviso apprezzamento circa la funzionalità del sistema, maturato all’esito di un esame rigoroso e dettagliato.
Quanto poi al meccanismo delle cosiddette scelte non espresse, si deve osservare che la mancata espressione della propria scelta non equivale – e non può essere assimilata in via interpretativa – al rifiuto del sistema o alla volontà di non parteciparvi.
La scelta del legislatore è stata quella di ripartire una quota dell’Irpef generale sul modello delle votazioni politiche, momento esemplare di partecipazione democratica, dove il numero dei votanti non determina il numero dei seggi da assegnare, che sono infatti assegnati tutti, anche se non tutti gli elettori si recano alle urne.
Questa scelta rimane ancora oggi pienamente attuale, in quanto ispirata a ragioni di principio che non possono essere ignorate per esigenze economiche contingenti, che invero sembrano rappresentare la motivazione prevalente, se non esclusiva, di alcune ipotesi alternative emerse nel dibattito.
Un breve cenno deve essere infine dedicato ad alcuni rilievi particolari della Corte dei Conti, contenuti nella deliberazione in oggetto sotto la voce “controlli sulla correttezza delle attribuzioni degli optanti e sull’agire degli intermediari” (cf. n. 8).
Il primo rilievo riguarda in generale l’attività svolta dai Caf. Al riguardo, la Corte afferma che gli interventi di vigilanza hanno consentito di rilevare che solo nell’1,67 per cento dei casi esaminati le scelte del contribuente non risultano trasmesse correttamente dal Caf.
Il secondo rilievo riguarda più specificamente il concorso I feel Cud, promosso, come noto, dal Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica della CEI “in collaborazione con il Caf Acli”. Al riguardo, la Corte riconosce che “Dalla documentazione pubblicata sul sito relativo al concorso, non è possibile desumere interferenze del Caf nel processo decisionale dei contribuenti che effettuano la scelta”. Peraltro, continua la Corte, resta indubbio che il Caf “pubblicizzava, sul proprio sito, attraverso un link di collegamento al sito del concorso in argomento, un’attività a sostegno della Chiesa cattolica”, rispetto alla quale l’Agenzia delle entrate ha avviato una specifica attività di vigilanza e controllo, ai fini delle opportune valutazioni.