Sono stati tantissimi i ragazzi della nostra diocesi che il 24 aprile hanno risposto alla chiamata “per nome” a partecipare alla giornata giubilare che il vescovo Antonello Mura ha voluto dedicare loro, nell’incontro di riflessione a Lanusei sulla loro fede. L’ufficio diocesano di Pastorale Giovanile, guidato da don Battista Mura, ha accolto e gestito l’evento, primo passo verso una maggiore responsabilità nei confronti delle tematiche della fede e in direzione della propria crescita personale. Un incontro fatto anche di riconciliazione che si è concretizzata nella visita al luogo diocesano della misericordia, e che si è aperto con un intenso incontro che ha significativamente avuto luogo nel salone del centro Caritas.
Il primo a parlare è stato proprio il vescovo che nella lectio divina, traendo spunto dal brano evangelico del giovane ricco, ha ricordato ai presenti come «seguire Cristo non è un affastellarsi di rinunce, ma un susseguirsi di moltiplicazioni di vita»; come allora, Gesù chiede ancora oggi a tutti i giovani di «lasciare tutto per avere tutto», e li riconosce e ama singolarmente («non siamo solo guardati, ma siamo visti»).
È stata poi la volta di un dibattito-intervista che il vescovo Antonello ha voluto personalmente condurre di cui sono stati protagonisti Silvia Melis, suo figlio Luca Usai e Carlo Cabras: oltre un’ora intensa e coinvolgente che ha tenuto tutti col fiato sospeso. Inizialmente sono state le parole di Silvia Melis, nel 1997 (all’epoca aveva 28 anni) ostaggio dei banditi, che ha narrato il cammino di perdono dei suoi sequestratori: un’esperienza di riconciliazione con chi l’ha rapita e con la sua stessa vita che le è stata rubata per 265 giorni. «Non puoi riuscire a superare le tue esperienze di dolore – ha detto la donna – se non ti riconcili con gli altri e con te stessa: solo il perdono per il male che ti è stato fatto, può consentirti di ricominciare una vita serena». A farle il controcanto è stato suo figlio Luca, che all’epoca del sequestro aveva 5 anni, e che era stato abbandonato dai banditi nell’auto della madre: «Non ho mai pensato di rimproverare nessuno, ma penso sempre che sia necessario ripartire: mi sento sempre in debito con Dio perché mi ha restituito viva mia madre». Cosa ti è costato di più?, ha insistito il vescovo con Silvia. «Certo, durante il sequestro a volte mi è venuto di chiedermi dove fosse Dio e perché mai permettesse quella cosa orribile che stavo vivendo. Ma in quelle lunghe giornate e, soprattutto, in quelle lunghe notti mi ha sempre soccorso la preghiera che mi ha consentito di trovare la forza per andare avanti». Disperata? «Mai. Ho considerato quei giorni, mentre li vivevo, un’occasione straordinaria che mi era donata per far crescere la mia fede, e sperare senza riserve in Colui che tutto può era tutto quello che mi restava da fare». Hai mai incontrato chi ti ha sequestrato? «No. Quelle persone erano e sono rimaste anonime, anche se durante il sequestro ha perfino cercato di dialogare con loro per provare a capire il senso del loro gesto».
È stata, quindi, la volta di Carlo Cabras, 32 anni, originario di Sorso, con alle spalle una lunga esperienza di volontariato in Kosovo, Uganda e Iraq, sempre in situazioni di frontiera. È stato uno svago il tuo andare in giro? «No – ha risposto il giovane alla provocazione del vescovo -. È stata una felice scelta di vita: sono stato papà, amico, fratello di tanti sofferenti … Dal di fuori può perfino sembrare un macello, la mia vita; ma per me è un capolavoro. Quei volti sfasciati, quei corpi mutilati dalla guerra mi accompagnano sempre: è la vetrata in cui mi si manifesta Dio». Carlo ha, quindi, narrato i due incontri più straordinari della sua vita, quello con un coetaneo portatore di handicap («non sono io l’handicappato – gli aveva detto quello -, sei tu») e quello con don Benzi, incontrato una notte quasi di sfuggita: «il suo sguardo mi ha dato la docilità e la forza di vivere integralmente il vangelo. Dovunque mi mandi io vado, mi sono detto quella notte». Poi il racconto della guerra vista in presa diretta, il terrore per le autobombe scoppiate appena fuori casa e gli interrogatori e le ispezioni della polizia che poco si fidava di lui. La cosa più bella che ti sia capitata? «Il sorriso dei feriti quando li chiamavo per nome e il sentirmi, a mia volta, chiamare baba (papà) da tanti bambini resi orfani dalla guerra».
Al termine, dopo un fuoco di fila di domande da parte di tanti che volevano saperne di più, tutti a compiere il pellegrinaggio penitenziale alla porta santa, con un’attenzione e una partecipazione che il vescovo ha voluto personalmente sottolineare.